martedì 18 dicembre 2018













Nessun neologismo è entrato nel linguaggio corrente con la stessa irruenza della parola «selfie». Cosa spinge milioni di persone in tutto il mondo a fotografare ogni momento della propria vita privata e a condividerlo sui social network? È mera ricerca di divertimento? O forse un triste mix di narcisismo e solitudine? Anche perché la volontà di lasciare un segno, fosse pure un autoscatto, è lì da sempre,  più forte di qualsiasi rappresentazione, liquida o meno, della società:  dietro il selfie si nasconde  quella fame di eterno, che da migliaia di anni taglia in due  l'anima dell'uomo, lasciandola sospesa tra cielo e terra. Ovviamente il selfie è terra terra.  Nel senso che appaga la carne: mi selfo dunque esisto. 
I risvolti meno conosciuti di una delle pratiche più diffuse e stigmatizzate degli ultimi anni vengono qui esplorati sotto una nuova luce dal filmaker Walter Ciusa:
Professione Selfista (mi selfo, quindi esisto) si concentra su una particolare categoria di selfie-addicted, i collezionisti di foto con i vip. Cacciatori seriali di celebrities, organizzati per bande, pronti ad affollare i backstage dei concerti e le passerelle dei festival per raccogliere foto o autografi di chi vedono sulla scena. Figure tra loro molto diverse, sorte ben prima della rivoluzione digitale e sopravvissute ad ogni epoca. Persone in carne ed ossa, che per una volta conoscono la luce dei riflettori: smettono di essere una nota di colore in coda alle notizie importanti e raccontano i loro desideri, le loro esperienze, la loro verità. Non vivono più di luce riflessa; si lasciano finalmente illuminare da uno sguardo che ha l’ambizione di essere originale e senza pregiudizi. 

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